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Chiesa di S.Maria dell'Angelo

Via S.Maria dell'Angelo

s.maria degli angeli1.jpg

Costruita dai gesuiti incorporando la soppressa chiesa parrocchiale di S.Cassiano costituisce il primo esempio di chiesa in stile barocco a Faenza. Il disegno fu di Girolamo Rainaldi di Roma (1621 posa della prima pietra). In seguito (1646) l’arch. Ercole Fichi eresse la cupola. La chiesa venne inaugurata nel 1650 con la facciata incompleta.

I dipinti della chiesa

I cappella a sinistra: Giampietro Canotti Cavazioni, San Francesco Regis e San Giuseppe, cm.270x180, 1739. Alle pareti, Antonio Fanzaresi, due ovali con la morte di San Giuseppe e Il compianto sul Cristo morto, cm.160x110; sull’altare Tommaso Minardi, Sacro cuore di Maria.
La pala è ricordata dallo stesso Canotti nella sua autobiografia (1739): “Sto ora facendo una tavola d’altare e vi pongo il bambino Gesù in atto di benedire San Giovanfrancesco Regis che gli sta avanti ginocchione tenendo in mano una croce e dall’altra parte San Giuseppe che siede sulle nubi;
e questo quadro mi fu ordinato dal gentilissimo padre Gregorio Maria Gabellotti gesuita per la sua chiesa in “Faenza”. Lo Zanotti (1674-1765), noto soprattutto come teorico e storiografo dell’arte bolognese, in pittura fu allievo del Pasinelli e strenuo seguace del classicismo di Guido Reni.
I due ovali, riferiti dal Corbara alla cerchia dello Canotti, ci sembrano piuttosto di area forlivese per gli espliciti rimandi alla scuola del Cignali. Il robusto contrasto luministico e i panneggi taglienti orientano verso il forlivese Antonio Fanzaresi, allievo di Felice Cignali, come suggerisce anche Giordano Viroli che ringrazio per la gentile comunicazione. Modi molto simili si ritrovano anche sulla tela con la “morte di San Giuseppe”, attribuita dal Corbara ad un anonimo pittore veneto emiliano, ma che mi sembra dello stesso autore dei due ovali.
L’attribuzione dubitava al Minardi del Sacro Cuore di Maria si regge sulla connotazione purista dell’opera, dove nel volto della Vergine l’evidente ripresa di modelli rinascimentali da Perugino a Raffaello, punta verso la poetica dei Nazareni.
II cappella sinistra: Tommaso Missiroli, Apparizione della Madonna a Sant’Ignazio di Lodola, olio su tela, cm.310x195, 1678.
L’opera è inserita nel catalogo del Missiroli con la data 1678 dal Valgimigli (1877). E’ citata come del Missiroli anche da Oretti (1777) e dal manoscritto di Firenze.
E’ una pala molto ben riuscita per la composizione dinamica e per la resa pittorica vibrante e luminosa sui modi del Reni. Di gusto reniano è in particolare il Sant’Ignazio che regge il bambino tra le braccia, secondo un’iconografia alquanto insolita. Quest’opera induce a rivedere il giudizio negativo espresso dal Lanzi sul Missiroli (“Non ha disegno né espressione né costume che lo commendi e spesso pecca in queste cose”). Quanto meno, va posta tra “quelle poche opere fatte con vero ingegno” che anche il Lanzi gli riconosceva.
Gli affreschi monocromi alle pareti sono vicini allo stile di Adriano Baldini, forse in sostituzione di affreschi più antichi che, secondo il Giordani, erano del quadraturista blognese Giacomo Alberesi.

Altare maggiore: Ambito di Sigismondo Foschi, Madonna dell’Angelo, tavola, cm.200x130, 1520-30 circa.
La tavola è copia di una immagine detta la Madonna dell’Angelo che si venerava in Santa Maria Vecchia, dove secondo la leggenda era stata per miracolo dipinta su un muro. Fu trasportata qui il 20 febbraio 1778 dai monaci cistercensi. E’ stata riferita al pittore faentino Sigismondo Foschi dal Corbara nel 1938 e di nuovo nel 1978, ma in maniera più dubitativa.
Il Foschi è indubbiamente uno dei più importanti protagonisti di quella corrente ispirata al protomanierismo fiorentino che si registra a Faenza nei primi decenni del Cinquecento. Forse anche per ragioni familiari (nei documenti infatti questo ramo dei Foschi ha il soprannome “della fiorentina”), l’artista appare in stretto rapporto con Firenze, in particolare con Fra Bartolomeo e con quel gruppo di pittori come Mariotto Albertinelli e fra Paolino che frequentarono la scuola pittorica tenuta dal Frate in S.Marco.
La citazione di idee e di stilemi da Fra Bartolomeo è così puntuale da suggerire che anche il faentino potesse essersi educato in tale ambito. Si confronti, ad esempio l’Assunta di Solarolo, firmata dal Foschi e datata 1522 con le Assunte di Fra Bartolomeo a Berlino e a Napoli, dalle quali è letteralmente ripreso il motivo degli angeli musicanti. La dipendenza da Fra Bartolomeo spiega inoltre gli stretti parallelismi con l’Assunta di Fra Paolino a Bibbiena, per quanto sia del 1532-33. Anche la Madonna col Bambino e Santi, eseguita dal Foschi nel 1527, per la chiesa faentina di San Bartolomeo e ora a Brera, accanto a un uso dello sfumato e a toni caldi del colore che inidirizzano verso Andrea del Sarto, palesa molti motivi di Fra Bartolomeo, come l’impostazione del gruppo entro una nicchia avvolta in una soffice penombra, la tipologia della donna col bambino ripresa dalla sala di San Marco del 1516, e il Battista desunto da quello della pala di Lucca del 1509.
Tuttavia rispetto al linguaggio del Foschi, la Tavola della Madonna dell’Angelo tradisce un maggiore arcaismo, che solo in parte è spiegabile con l’immagine antica di cui è copia. L’uso dello sfumato è meno pastoso i panneggi hanno una condotta lineare e rigida, senza il vibrante accartocciarsi delle stoffe e le fisionomie sono di una grazia un po’ stereotipata in contrasto con la più intensa caratterizzazione del Foschi. Tali caratteri giustificano i dubbi del Corbara e postulano a nostro avviso la mano di un collaboratore del Foschi, forse uno dei due fratelli Benedetto e Giuliano che dal documento risultano anch’essi pittori.
Altre opere faentine, tradizionalmente riferite al Foschi, manifestano questa stessa cifra che declina le idee fiorentine in maniera più riduttiva rispetto alla qualità alta delle pale di Brera e di Solarolo, come il Cristo Portacroce (Pinacoteca), derivato da quello di Fra Bartolomeo e San Marco e la Madonna col Bambino e San Giovannino (pinacoteca) purtroppo molto sciupata. Tali opere potrebbero meglio convenire ai due fratelli del Foschi. Ci sembra più difficilmente ascrivibile a Sigismondo la tavola della Madonna e Santi, già in Santa Maria Vecchia, ora in pinacoteca, connotata da una cultura più locale, che ha tali agganci con i modi del Tonducci da suggerire la sua paternità. Si confronti con la pala di Lugo firmata dal Tonducci e datata 1557, dove la Madonna col bambino è di una corrispondenza stringente nella figurazione e nella scansione lineare e spessa dei panneggi; vicina è anche la pala di collezione privata, di recente attribuita al Tonducci, per il senso spaziale ed architettonico, le profilature lineari dei volti l’espressività languida.
Potrebbe invece spettare a Sigismondo Foschi la Madonna del Soccorso del Museo di Berlino, finora inedita di stretta osservanza a Fra Bartolomeo (è infatti attribuita alla sua scuola nel catalogo del Museo del 1931). Il riferimento al faentino è annotato anche nella foto dell’Istituto germanico di Firenze, accanto ad altra attribuzione al pittore lucchese Zacchia il Vecchio. Soprattutto i due angeli della parte superiore ricordano molto quelli di Zacchia, ma l’intensità del chiaroscuro, la caratterizzazione robusta del gruppo familiare sulla destra, moduli come gli occhi infossati in due cerchi d’ombra e i solidi rilievi dei panneggi, sembrano rimandare al Foschi più che alla calibrata cifra del lucchese.

II cappella a destra: Scuola veneto emiliana, San Francesco Saverio predica alle folle, olio su tela, sec. XVIII metà.
La pala si trova nella cappella dedicata a San Francesco Saverio che era di giuspatronato dei conti Mazzolani. E’ un’opera di notevole livello, soprattutto per la gamma cromatica tersa e luminosa, che in parte giustifica l’attribuzione a scuola veneziana avanzata dal Valgimigli. Non è invece accettabile il nome del forlivese Giuseppe Marchetti, suggerito dal Giordani, per quanto sia connotato da una componente veneta che gli deriva dal suo maestro, il veronese Felice Torelli. La matrice emiliana del dipinto (tra Donato Creti e Lorenzo Pasinelli) non è però da escludere, ed inoltre gli influssi veneziani sono ampiamente presenti nella stessa pittura bolognese della metà del Settecento.
Gli affreschi monocromi sulle pareti sono sullo stile del Baldini, forse in sostituzione di altri che il Giordani assegna al quadraturista bolognese Agostino Mitelli.

I cappella a destra: Andrea Barbini, La Vergine col Bambino e i Santi Luigi Gonzaga, Stanislao Kostka e Francesco Borgia, olio su tela cm.362x120, 1740-50 circa e alla parete Antonio Fanzaresi, Sant’Anna e la Vergine Bambina 1750 circa.
La pala, commissionata per i Gesuiti, è opera del ravennate Andrea Barbiani, come attestano le fonti (Valgimigli e Ms. di Firenze). Il Barbiani a Faenza esegue una delle sue opere più importanti, la decorazione ad affresco della cappella di San Nevolone in Duomo, nel 1764-65. La pala mostra uno stile più controllato rispetto ai ritmi barocchi di quegli affreschi e può datarsi al 1740-50 per gli agganci con dipinti di tale decennio (pale della Pinacoteca di Forlì e del Seminario di Ravenna).
Il quadro con la Sant’Anna è dello stesso autore dei due ovali della prima cappella sinistra con i quali ha evidentissime analogie compositive: oggetti, quasi come “nature morte” posti in primo piano, panneggi taglienti, fisionomia marcata della Vergine. Il nome del Fanzaresi è confermato dalla componente cignanesca, che ben si evidenzia dal confronto con l quadro dello stesso soggetto di Felice Cignali che è in Duomo.

Cappella dell’antico Oratorio delle dame: Maestro di San Pier Damiano, Madonna della Tosse, ovale su tavola, cm.66,2x50,2 , 1430 circa.
La tavola che i monaci di Santa Maria Vecchia portarono qui nel 1778, è la parte centrale di un polittico quattrocentesco, ridotta successivamente in forma ovale. In origine aveva ai lati le immagini di San Pier Damiano (Ravenna, Pinacoteca), e di San Pietro, San Paolo, San Benedetto (perduti) e nelle cuspidi i Santi Vito e Giovanni Battista (Faenza, Pinacoteca, perduto). Tale ricostruzione si basa sulla testimonianza rilasciata dal pittore Carlo Cignali al processo sul culto di San Pier Damiano (1701) ed è confermata dalla perfetta coerenza di misure, soggetto, stile e provenienza delle tavole.
Esse ci consegnano la personalità di un maestro legato al gusto tardogotico evidente nelle eleganti annotazioni di costume, nell’ampio ricorso all’oro, agli ornati e alle aureole decorate a punzone. Lo spazio è bidimensionale e nella figurazione prevalgono ritmi lineari, soprattutto nei tratti molto marcati dei volti. Tale linguaggio, che rimanda alla pittura di Bologna (Pietro Lianori e anche Simone dei Crocifissi), con persistenze venete e agganci alla tradizione più specificatamente romagnola (Bitino da Faenza), ben si addice ad un maestro locale, convenzionalmente da noi chiamato Maestro di San Pier Damiano.
Golfieri proponeva di riconoscevi il faentino Guglielmo di Guido del Peruccino, noto solo da documenti che vanno dal 1418 al 1459, anno della morte.
Tali date non disdicono all’attività del Maestro di San Pier Damiano che comprende anche l’affresco già in Santa Perpetua e quattro pannelli inseriti nella cantoria del Duomo. Essi facevano parte di un secondo polittico come da noi ipotizzato (Tambini 1988). Ne abbiamo trovato una conferma nell’Oretti  che così descrive l’opera del Duomo  nel 1777: “Tavolina a caselle/ nel mezzo Madonna seduta con il Figlio/Bambino giacente sulle/ ginocchia delle bande S.Eliza /S.Barbara, S.Francesco, S.Pietro/ una… altra/ storia sotto storiette / un laterale con Cristo/ Risorto pinto in tavola/ “antico dipinto in tavola”.
Da tale descrizione si evince che al centro vi era una Madonna col Bambino, oggi perduta, ai lati le quattro tavolette superstiti che presentano appunto Santa Elisabetta, Santa Barbara, San Francesco e San Pietro. Nella parte inferiore vi era una predella con “storiette” (e forse con il Cristo risorto), che rappresentavano episodi legati ai Santi suddetti. In tale ottica è suggestivo rivedere l’ipotesi di Andrea De Marchi (comunicazione scritta, 1992), secondo cui sotto la Santa Elisabetta poteva comparire una tavoletta con la Visitazione, già in coll. Lehman a New York, poi passata sul mercato antiquario (Firenze, Carlo Carnevali, 1992), assegnata dallo stesso De Marchi al Maestro di San Pier Damiano, che è un’attribuzione condivisibile per epoca e stile.

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