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Domus II-III secolo d.c.

via Cavour 8

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La domus urbana, scavata nel 1963, ha avuto una lunga continuità di vita. La prima fase della casa, forse relativa alla tarda età repubblicana o primo periodo imperiale, è testimoniata da un frammento di pavimento in esagonette di laterizio con tessera musiva al centro, alternata a losanghe. L’ambiente relativo alla seconda fase, molto prestigioso e di circa 80 metri quadrati (8 x 10), era probabilmente un triclinio, cioè una sala da pranzo, ed aveva un pavimento musivo datato, secondo le più recenti ipotesi, attorno alla seconda metà del III sec. d.c. Questa sala si trovava a una quota più alta rispetto agli altri ambienti venuti in luce, ed era collegata a essi probabilmente da due gradini. A fianco del triclinio si trovava una pavimentazione tipica delle aree aperte,caratteristica che, unitamente al ritrovamento di un frammento di colonna scanalata e di un bacile in pietra (labrum), hanno indotto a individuare quest’ambiente come un’area aperta, forse un peristilio. Situata al margine del settore occidentale della città romana, nel lato ad ovest dello scavo è stato rinvenuto il fossato che doveva essere il confine della città di Faventia verso occidente.
Lo scavo della domus è stato solo parziale per l’esistenza di edifici moderni coprenti l’area.

La porzione di mosaico rinvenuta nella sala del triclinio è di circa 36 metri quadrati ed è inferiore alla metà di quella che doveva essere la superficie totale dell’ambiente.
Il mosaico è caratterizzato da un complesso motivo geometrico-vegetale campito da ornamentazioni diverse con al centro un quadro con scena di caccia tra animali, raffigurante un leopardo all’inseguimento probabilmente di una gazzella. Del leopardo, volto verso sinistra, manca parte del muso. L’animale è rappresentato nell’atto di fare un balzo, probabilmente verso un ungulato di cui rimangono solo le zampe posteriori. La scena si svolge su di uno sfondo neutro per cui l’ambientazione paesistica risulta del tutto assente (o almeno sembra tale dal frammento rimanente); la profondità è resa dalla sola linea dell’ombra data dalla figura degli animali, che costituisce una sorta di base d’appoggio circoscritta alle zampe nei colori arancione, verde,ocra e giallo. La figura del leopardo è resa cromaticamente con una serie di tessere in pietra locale la cui misura varia tra 0,5 e 1 cm,nelle diverse sfumature di verde,ocra, rosso scuro, arancio, oltre al bianco e al nero.
L’emblema faentino, che è bordato da una treccia a calice policroma e da un’ulteriore cornice con boccioli e foglie disposti a onda resa con tessere nere su fondo bianco, si trova al centro di un tappeto musivo caratterizzato da un disegno geometrico ripetitivo,costituito da una composizione di ottagoni irregolari a lati con cavi che determinano dei cerchi collegati tra loro da una treccia semplice.
All’interno dei cerchie degli ottagoni sono presenti elementi floreali e geometrici molto vari, quali ad esempio stelle a otto punte, fiori lobati, motivi a stuoia; a loro volta gli ottagoni sono bordati da fasce con decori geometrici diversificati.
L’impressione generale è di una notevole ricchezza di immagini ma estremamente calibrata e realizzata con molta cura.
La maniera compositiva generale dell’intero mosaico rimanda al mondo delle province africane, ma sono presenti nello stesso tempo anche caratteristiche che lo accomunano alla tipica produzione musiva presente nella penisola nel II secolo dopo Cristo. Per individuare queste componenti Chiara Guarnieri .si è riferita in particolare a una certa ‘rigidità’ strutturale, a un senso della composizione geometrica molto netto e spiccato e alla presenza di un elevato numero di elementi decorativi resi in bicromia, come ad esempio i fiori lobati e le stelle a otto punte all’interno del tappeto, a cui si aggiunge la cornice con racemo vegetale che corre tutt’attorno all’emblema.
 Presentando il mosaico nel 2013 alla sedicesima edizione di Restituzioni (programma di restauri di opere d’arte promosso da Intesa Sanpaolo) Chiara Guarnieri ha concluso che in questo caso «sembra quindi di trovarsi di fronte a una precoce acquisizione di temi e stili propri del gusto ‘africano’ma filtrati attraverso una più rigorosa interpretazione tipica della produzione italica. L’esemplare faentino, che viene quindi ad accrescere lo scarso numero di testimonianze di questo  tipo note in Italia, risulta inoltre di particolare importanza perché denuncia la presenza a Faenza di una élite culturale caratterizzata da una precoce e spiccata predilezione verso il gusto africano, ancorché intrisa di gusto locale».

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