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Monumento funebre di Africano Severoli
Pietro Barilotto, (1523-25), cm. 400 x 205 x 40
(Cappella di San Terenzio)
Entro una nicchia sostenuta da un mensolone con una iscrizione al centro e una decorazione ai lati con le imprese della famiglia Severoli è posta un'arca con peducci leonini ornata da festoni di fogliami e figure alate che sorreggono una ghirlanda. Le colonne laterali riportano fregi a grottesca. La nicchia è sormontata da un fastigio aggettante ornato da festoni e frutti su cui sono collocate tre figure, il profeta Ezachiele al centro e due putti con cartigli ai lati.
Commissionata nel 1523 allo scultore faentino Pietro Barilotto (1481-1553) discendente da una famiglia che per diverse generazioni aveva esercitato l’arte figulina ed il cui padre Druso aveva lavorato come lapicida a Roma accanto ai maestri lombardi e che in quegli anni godeva già di un discreto prestigio nell’ambito romagnolo derivatogli soprattutto dal suo intervento nella famosa Cappella Lombardini in San Francesco a Forlì.
Il monumento Severoli può apparire, come ha scritto Bice Montuschi Simboli, «opera più di un elegante lapicida che di un autentico scultore essendovi la parte plastica limitata alle piccole figure nella zona della cimasa, in realtà è già indicativo della personalità dell’artista e del suo atteggiarsi tra i vari indirizzi della scultura contemporanea. Chiara vi si dimostra l’adesione alla cultura fiorentino-romana ed in questa, come d’altronde in tutte le sue opere, particolari talora modesti ma indiscutibili testimoniano una precisa conoscenza dei monumenti funebri realizzati nel primo decennio del Cinquecento in alcune chiese romane da Andrea Sansovino e che egli aveva forse conosciuto di persona durante un suo supposto tirocinio a Roma tra il 1505 ed il 1509 anni in cui non risulta presente in Faenza, ma d’altro canto il modo ancor fermo e compatto di concepire la figura, il taglio talora aspro dei contorni, il frequente ricorso ad inserimenti di marmi policromi che ritroviamo in ogni sua opera ci rimandano indubbiamente alla tradizione lombardo-veneta ancor viva in ambito romagnolo, ma, cosa essenziale, già vi si ravvisa quel suo tratto incisivo, talora rude, che esalta il rilievo e sa conferire concretezza e verità anche alle immagini, ormai consunte dall’iterato ripetersi dei teschi, degli amorini, delle clessidre intagliate nelle paraste e che animo di un guizzo come di fiamma il profeta gesticolante alla sommità dell’opera».