Salta navigazione
FAENZA IN MANO
[t] Apri la barra con i tasti di accesso   [x] Nascondi la barra con i tasti di accesso   [1] Contrasto normale   [2] Contrasto elevato   [3] Testo medio   [4] Testo grande   [5] Testo molto grande   [n] Vai alla navigazione principale   [p] Vai al contenuto della pagina   [h] Home page

Contenuto principale

Ricordi di vita in Palazzo Bandini-Rossi

Testimonianza di Giuseppina Collina, figlia dei custodi del Palazzo

r1936Collina.jpg

Nella foto del 1936 a sinistra Giuseppina Collina, autrice delle memorie qui riportate, con la sorella Anna al centro e il padre Giovanni Collina. Sono fotografati in via Maioliche, sotto il ponticello che collega la rotonda Rossi con l'omonimo palazzo.

Sono nata nel 1929 nel palazzo Rossi ed il mio babbo ne era il custode. [...]
Il mio babbo, Giovanni Collina, classe 1893, era tornato dalla guerra del 1918 e lavorava con i fratelli a Granarolo nel podere “Palazza” e la famiglia era detta Vuina.
Il Signor Teresio Rossi (classe 1864), padrone del podere, siccome erano cinque fratelli, propose al mio babbo se voleva fare il cameriere da loro nel palazzo a Faenza.
Mio babbo accettò volentieri: aiutava la cuoca e la cameriera nelle faccende più pesanti e serviva a tavola.
A quei tempi si viaggiava con carrozze e cavalli, ma quando assunsero il mio babbo, i padroni gli fecero prendere la patente e comprarono la prima macchina. Era circa il 1922.
In inverno i signori soggiornavano a Firenze lui li accompagnava. Erano nobili molto buoni e cordiali. Quando nel 1928 mio babbo si sposò con mamma, Elena Borghi (detta Lina) lo fecero custode del palazzo di Faenza e gli diedero in uso le stanze proprio di fronte alla Rotonda.
In qualità di custode doveva fare altre cose: andava dai contadini a vedere i raccolti del grano e dell’uva; faceva il vino che serviva per i padroni, per noi e per eventuali nostri ospiti.
Da un podere vicino portavano l’uva con un carro tirato da mucche. La mandavano in cantina con una doccia di legno fino ai tini. In cantina c’erano tutti gli attrezzi per fare il vino: il torchio, le botti; e se ne occupava il mio babbo.
Degli amici venivano spesso a bere un bicchiere da noi e a scaldarsi in inverno perché da noi la legna non mancava, mi ricordo che veniva il calzolaio Achille Resta che era corista e dopo che aveva bevuto un po’, spesso cantava qualche romanza. Ricordo anche il falegname Francesco Morini detto “Paris” a cui piaceva raccontare fatti di Faenza. Una volta raccontò di Signori che entravano al bar Caroli senza scendere da cavallo e così facevano rovesciare qualche tavolino.
Il mio babbo invece  raccontava di quando era in guerra. Era stato l’attendente di un Capitano, il quale, quando andava a dormire sotto la tenda nella neve, dava ordine che lo chiamassero solo quando il nemico sparava. Quando il mio babbo lo doveva chiamare gli diceva “Capitano sparano” e lui si arrabbiava perché i nemici non lo lasciavano dormire. Il babbo raccontava anche di quando faceva servizio in  un ospedale militare dove una crocerossina di faceva aiutare a stringere il busto per fare la vite sottile. Ci riferiva di quando il Signor Rossi gli aveva raccontato che in un viaggio in Cina aveva conosciuto un Collina della Romagna, disertore, che aveva sposato la figlia di un mandarino cinese. Quando questo Collina morì senza eredi, dei lontano parenti in Italia si interessarono per avere l’eredità, ma non fu possibile portare fuori niente dalla Cina.
I Signori Rossi avevano un fattore che amministrava i poderi, un fattore per il mercato delle bestie e un “ministro” che si occupava di amministrazione finanziaria. I contadini quando avevano bisogno di consigli si rivolgevano al fattore, poi periodicamente portavano al palazzo le decime, tra galline, capponi, uova.
Mia mamma si occupava di custodire i polli vivi in un pollaio che si trovava nel mezzanino del palazzo a fianco, sempre di proprietà dei Rossi. Al bisogno uccideva e spennava le galline da mandare ai Signori a Firenze insieme alle uova.
Il Signor Rossi e la moglie, la Contessa Giuseppina Ginnasi, furono poco fortunati perché nel 1930 i loro due figli maschi, Nicola e Sebastiano, sposati da poco (il maggiore aveva due figli piccoli e il minore la moglie incinta), rimasero uccisi in un incidente stradale.
Mentre andavano in campagna a Granarolo, dove avevano dei poderi, in macchina con il fattore, ad un passaggio a livello incustodito, l’auto si scontrò con il treno. Il fattore si salvò mentre i due fratelli morirono. Fu una grande tragedia per la famiglia Rossi. I funerali furono fatti in forma solenne. Dal Duomo fino alla porta Imolese la processione sfilò fra due ali di folla, poi portarono le salme nella tomba di famiglia a Biancanigo. Dopo questa tragedia i genitori fecero una vita ritirata: solo la figlia Rosa, le nuore, Isabella Ghini e Paola Ghetti e i nipoti andavano spesso a trovarli.
Quando in primavera i Signori Rossi si trasferivano a Faenza, il babbo assieme alla mamma, dovevano aprire e spolverare tutto il palazzo. Il palazzo era in Corso Mazzini al numero 97.
Io da bambina li seguivo e ricordo le belle sale tutte affrescate, i mobili antichi, i salotti pieni di tappeti e cimeli che il signor Teresio aveva portato dai viaggi in Cina fatti in gioventù.
Nelle finestre c’erano delle belle tende: una di velluto con la mantovana, una di seta e una di pizzo, contornate da fiocchini  o frangine. Io mi divertivo a giocare a nascondino tra le stoffe.
Le stanze in cui abitavamo io, mia sorella Anna e i miei genitori erano al piano terra sulla via Maioliche sotto il ponticello della Rotonda.
Ricordo che tutte le mattine passava lo spazzino col carretto tirato a mano ed io lo sentivo perché via Maioliche era pavimentata di sassi. A quei tempi, il pattume veniva messo in bidoni all’esterno della casa e lo spazzino li rovesciava nel suo carretto. D’inverno invece raccoglieva la neve e la buttava nella ghiacciaia sotto la Rotonda, che veniva poi utilizzata in estate da tutti i macellai di Faenza.
Nella Rotonda c’era una porta da cui partiva una scala, che portava alla ghiacciaia e un’altra scala che, passando sotto la strada, portava alle tre grandi cantine sotto il palazzo. Una per la legna, un’altra per il vino e nella terza, situata dalla parte di corso Mazzini, c’era l’impianto di riscaldamento a legna che produceva l’aria calda che usciva nelle stanze.
La Rotonda allora era circondata da tanto verde fino a via Tolosano ed era tutta proprietà del Signor Rossi; le attuali scuole Lanzoni. Tutto il terreno era circondato da un alto muro lungo via Maioliche che arrivava alle mura dei viali delle Rimembranze.
Vicino c’erano le prigioni, circa dove si trova oggi l’Istituto Oriani. E in via Maioliche 20 c’era una “casa di tolleranza” gestita da una certa Brunetta. Ogni quindici giorni c’era  il cambio delle ragazze, ricordo che arrivavano con una carrozza che le andavano a prendere dalla stazione.
Sulla proprietà dei Rossi c’era anche la casa della famiglia della mia amica d’infanzia Ada Cornacchia. I suoi genitori coltivavano ortaggi, piante e fiori. Avevano anche le serre. Sulla destra dei terreni c’era il canale che veniva da via Morini tra il palazzo Mazzolani e il palazzo Ghetti. Per innaffiare gli orti avevano una grande ruota di legno che ricordava a noi bambini una ruota panoramica.
Veniva abbassata nell’acqua corrente e ruotando sollevava l’acqua e la rovesciava nei cataletti di irrigazione.
Per noi bambini era un gran divertimento. E anche giocare nella Rotonda.
In quel periodo le mie amiche, oltre ad Ada, erano le sorelle Burnaccini e Sebastiana Rossi, una nipote dei Signori Rossi, che in estate soggiornava per un certo periodo a Faenza nel Palazzo Ghetti (che si trovava tra il Palazzo Rossi e il Palazzo Mazzolani, in quella che ora è Piazza II Giugno).
Il palazzo Ghetti era di proprietà di Paola Ghetti, mamma di Sebastiana e nel cortile aveva un piccolo labirinto vegetale dove noi giocavamo.
Nel cortile del palazzo Rossi invece c’era una vasca con i pesci che avevano al centro una colonna, con sopra un puttino che teneva in mano un pesce da cui zampillava l’acqua.
Nella parte posteriore del cortile c’era una grande camera in cui, in due vetrine, erano custoditi i finimenti e le selle da attaccare ai cavalli. Ma i cavalli non c’erano più.
Al piano terra vi era un’ampia cucina con un grande camino e anche il pozzo dove tenevano al fresco il cocomero.
Sopra la cucina c’erano i mezzanini dove dormivano la cuoca e la cameriera. Al piano superiore c’era un grande guardaroba.
La parte più bella del palazzo era quella che dava su corso Mazzini. Al piano terreno c’era la sala da pranzo e due salotti pieni di oggetti: tappeti, statuette, tavolini intarsiati di madreperla e avorio, ventagli, arazzi stendardi che coprivano tutti i muri. Erano tutte cose che il Signor Teresio aveva portato dai viaggi in oriente fatti in gioventù. Ricordo un bell’album con disegni giapponesi su seta.
Vi era anche una specie di pannello di legno fatto tutto a colonnine che permetteva di intravedere la persona che era dall’altro lato. Assomigliava a un confessionale.
Dall’androne di ingresso, dalla parte opposta rispetto alle stanze, c’era un ampio scalone in marmo che saliva a spirale fino al primo piano. Aveva una bella balaustra in marmo  con largo corrimano su cui mi divertivo a scivolare. Salendo, attorno alle pareti; c’erano delle mezze colonne e delle nicchie con statue.
Al primo piano si trovavano le stanze da letto dei Signori Rossi. Erano tutte affrescate nei soffitti. Una stanza aveva anche una parete tutta dipinta. Ricordo che c’era un bagno con una vasca in marmo che dopo il bombardamento è finita nell’androne di palazzo Mazzolani.
In una sala c’erano le armi antiche, le scimitarre e vicino una piccola cappella.
Avvicinandosi il tempo di guerra i Signori, ormai anziani, con una cuoca e una cameriera, si stabilirono a Faenza.
Tutte le mattine il padrone andava a piedi in piazza dal barbiere di fronte al Duomo e i mendicanti di Faenza cercavano di incontrarlo perché dava a tutti qualche centesimo, poi a mezzogiorno era a casa e per avvertire che era arrivato dava un colpo al gong che si trovava nell’androne.
Durante i bombardamenti del 13 maggio 1944 la parte davanti del palazzo crollò; in piedi rimasero solo la facciata che in seguito fu demolita.
Il Signor Rossi che si trovava in camera da letto, rimase vittima sotto le macerie, la Signora si salvò seduta in una poltrona coperta di pietre.
Al centro del cortile cadde una bomba che distrusse la vasca con i pesci. Il puttino fu ritrovato intero in fondo al cratere scavato dalla bomba.
La parte del palazzo abitata da noi non subì danni e ancora oggi è esistente. La mia famiglia si salvò in cantina. Io ero a Granarolo e alla fine della guerra tornammo nel Palazzo.
Nel 1950 morì la Signora. Noi rimanemmo ancora fino al 1962, l’anno dopo la morte del mio babbo. Poi ci siamo trasferiti e arrivò un nuovo custode: Benito Beoni.

Tratto da: 2001 ROMAGNA, n. 142 , giugno 2014, pp.54-60

Collegamenti a Social Networks