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Cappella della Beata Vergine delle Grazie - Descrizione di Pietro Lenzini

Nella testata del transetto di sinistra si apre la Cappella della Beata Vergine delle Grazie, Patrona di Faenza, che conserva nel tabernacolo marmoreo dell’ancona l’immagine venerata, frammento di affresco quattrocentesco proveniente dall’antica chiesa dei Padri Domenicani.
Dal 10 maggio 1760 e dopo il 1762, data con cui iniziano i grandi lavori di rinnovamento della cappella, in origine dedicata agli Apostoli Pietro e Paolo, il secolare culto del popolo faentino verso la celeste Patrona, ha il suo centro reale e spirituale in questa sede.
E’ da sottolineare che qualche anno dopo la definitiva sistemazione della cappella, nel 1765, anche i confratelli che ne tutelavano il culto, fin dall’origine, decisero di trasferirsi in un luogo prossimo alla cattedrale: sorse così l’oratorio di San Pietro in Vincoli che fu aperto nel 1768.
Dal 1699 la Cappella dei Santi Pietro e Paolo accoglieva il sontuoso altare ricco di marmi  che il Cardinale Rossetti aveva ordinato nel 1681 al marmoraro veneto  G. B. Cavalieri, destinato ad altare maggiore. Esso si completava di quattro statue in marmo bianco di Carrara: le due colossali dei Santi Pietro e Paolo su basi stemmate e i due angeli reggicortina; la mensa a forma di urna, dalla profilatura rastremata, dal gennaio 1700 accoglieva le spoglie del Beato faentino Nevolone visibili attraverso una inferriata dorata (Zanelli, ms., c. 2).
Quando nel 1762 la Confraternita provvide alla ristrutturazione dell’intera cappella che fu rivestita alle pareti di marmi e tarsie policrome e vi furono trasferite le parti dell’ancona marmorea già in Sant’Andrea in Vineis del 1726 eseguita dal veneziano G. Domenico Bertis, si dovette procedere ad una sorta di asssemblaggio dell’altare e sculture rossettiane, dell’ancona settecentesca con diversi inserti plastici, oltre a pezzi erratici di diversa provenienza come il rinascimentale tabernacolo (Vitali, 1980). L’operazione compositiva di questo apparato non era certamente delle più facili e ne risultò una immagine che pur nella sua macchinosità è di grande effetto teatrale. Le quattro statue, qui trasferite dal presbiterio, sono di cultura veneta e particolarmente pregevoli, i due apostoli già attribuiti ad Alessandro Vittoria o a Giusto Le Court (Strocchi,1838, pagg. 23-24), sono con più probabilità di un suo seguace o di Bernardino Falcone operoso agli “Scalzi” di Venezia e a Padova (Corbara, 1950). L’ancona settecentesca racchiude una più piccola edicola con preziose colonne in rosso di Francia e angioletti sui timpani spezzati, altri angeli con le terne delle frecce infrante sono nel fastigio ai lati del medaglione marmoreo con l’Apparizione della Vergine alla matrona Giovanna, opera della cerchia ravennate dei Toschini. Il tutto è completato da un grande “pannarone” e dalla croce apicale, sostenuta da angeli.
La fastosa messa in scena, accentuata dalla vivacità coloristica dei marmi adoperati di gusto tipicamente rococò, rappresenta nel quadro culturale della città l’espressione di una declamata riaffermazione dei valori devozionali, ma anche lo specchio di una situazione che sta mutando, e già il processo è avviato, non solo nella direzione dell’arte, ma negli stessi valori ideologi in un globale e radicale cambiamento di rotta.
Negli anni in cui sta per consumarsi la grande stagione barocca e proprio a Faenza dove si profilano, specialmente nel settore architettonico, i prodromi di quel linguaggio neoclassico che avrà, poi, così specifica e rilevante connotazione e anche la stessa committenza ecclesiastica --- in particolare l’illuminato vescovo Cantoni --- sembra cogliere le avvisaglie della nuova temperie, lo spettacolare e illusionistico apparato della cappella può sembrare contraddittorio e “fuori moda”. Ma è una confraternita che promuove l’impresa e gli scopi non sono esclusivamente di vacua esteriorità, ma soprattutto dimostrativi di rinnovata e commossa devozione alla Patrona e con l’accentuazione di una pronunzia, quella barocca, declinante si, ma la sola capace, ormai, di trasmettere la tangibile esperienza del sacro.
(P. Lenzini, Vicende pittorico-decorative del Settecento e dell'Ottocento; in Savioli 1988, pp. 146-148).

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